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Accendi un diavolo in me – l’effetto Lucifero

L’esperimento carcerario di Stanford

 

Era il 1971 quando Philip Zimbardo si interessò ai meccanismi innescati dalla detenzione sulla psicologia degli individui, e decise pertanto di ricreare un carcere nei locali sotterranei della Jordan Hall dell’Università di Stanford, per dare vita ad uno degli esperimenti più noti della storia del Secolo scorso: lo Stanford Prison Experiment (SPE).

L’obiettivo era quello di distinguere ciò che la gente porta in una situazione di detenzione da ciò che la situazione tira fuori dalla gente coinvolta, ovvero distinguere le responsabilità e le attitudini personali dalle responsabilità che crea la situazione e che sono estranee alle disposizioni personali. Craig Haney, uno dei ricercatori coinvolti, definì così l’esperimento: “Mettere delle brave persone in una brutta situazione per vedere chi o che cosa ha la meglio.” , Zimbardo [2008]. Essenziale era quindi ricreare una prigione e il suo caratteristico ambiente psicologico in un luogo controllato dai ricercatori, nel quale poter documentare l’intero processo di indottrinamento alla mentalità di detenuto e di guardia, ruoli assegnati a studenti volontari privi di tratti patologici. L’esperimento, iniziato la mattina del 14 agosto 1971 con l’arresto degli studenti-detenuti da parte di veri poliziotti, sarebbe dovuto durare due settimane, ma venne interrotto al sesto giorno a causa delle condizioni psicofisiche dei detenuti.

Ai detenuti apparve subito chiaro che l’esperimento non sarebbe stato piacevole: vennero bendati, umiliati, ridicolizzati, fatti spogliare e vestire in modo da annullare le differenze individuali; vennero anche legati ognuno ad una catena con lucchetto alla caviglia, e sottoposti ad esercizi fisici sfiancanti e richieste di ordini improbabili che impedivano loro di riposare, nonché incessanti prese in giro da parte delle guardie, che esercitavano il loro dominio in maniera via via maggiore.

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In questo clima di tensione, si susseguirono in pochissimi giorni ribellioni, punizioni, isolamento dei detenuti, tentativi di incursione, libertà condizionata ed inserimento di nuovi “dentenuti”; i ragazzi nel ruolo di incarcerati provarono effettivamente la “sindrome da prima condanna”, nella quale la persona si ritrova piena di dubbi, confusione, depressione, rabbia ed eccesiva emotività. Più i detenuti entravano nel ruolo di persone inermi e senza speranze, più le guardie diventavano sadiche e aggressive, traendo soddisfazione dalla persecuzione degli altri studenti. In soli 6 giorni l’esperimento è riuscito a condensare le dinamiche di un reale carcere, trasformando a poco a poco gli atteggiamenti di tutti i suoi partecipanti, Zimbardo compreso: il ricercatore infatti, nel ruolo di direttore del carcere, non si riusciva a rendere conto della gravità degli atti commessi, e fu solo grazie all’intervento di Christina Maslach che decise di porvi fine.

Alla notizia della fine dell’esperimento, gli studenti dapprima non compresero il significato delle parole, tanto era alto il loro livello di estraniazione, e fu solo dopo le dovute spiegazioni che si resero conto di essere di nuovo “liberi”; incolperanno poi Zimbardo e le guardie di eccessiva crudeltà, di aver creato una situazione dove le persone perdevano il controllo del proprio comportamento e della loro mente. Da parte loro, le guardie non mostrarono veri sensi di colpa, erano maggiormente rammaricate del concludersi prematuro della ricerca e del guadagno andato perduto, mostrando per lo più un senso di responsabilità diffusa, giustificandosi dicendo che le loro azioni erano necessarie per adempiere al loro ruolo.

Effetto lucifero

 

Ecco il trailer del film ‘The Experiment’, basato sull’esperimento carcerario di Stanford.

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