Un attacco di panico è un ‘attacco’, cioè qualcosa che ha un inizio, dura un certo tempo e poi finisce. Esattamente è definito come “comparsa improvvisa di paura o disagio intensi che raggiungono il picco in pochi minuti”.
In questo lasso di tempo fanno comparsa una pluralità di ‘sintomi’; i criteri diagnostici attuali (DSM-5) chiedono la presenza di almeno quattro tra quelli compresi nell’elenco seguente:
• Palpitazioni, cardiopalmo o tachicardia.
• Sudorazione.
• Tremori fini o a grandi scosse.
• Dispnea o sensazione di soffocamento.
• Sensazione di asfissia.
• Dolore o fastidio al petto.
• Nausea o disturbi addominali.
• Sensazioni di vertigine, di instabilità, di ‘testa leggera’ o di svenimento.
• Brividi o vampate di calore.
• Parestesie (sensazioni di torpore o formicolio).
• Derealizzazione (sensazione di irrealtà) o depersonalizzazione (essere distaccati da se stessi).
• Paura di perdere il controllo o di ‘impazzire’.
• Paura di morire.
Non è rara la presenza di sintomi ulteriori, per es. acufeni (tinnitus aurium), fitte di dolore, scotomi e alterazioni del campo visivo.
Gli attacchi di panico non sono tutti identici tra loro e due persone diverse possono avere attacchi molto diversi tra loro, giacchè il numero di possibili combinazioni di quattro elementi a scelta da questo elenco di 13 è un numero altissimo. L’esperienza mostra però molti pazienti che accusano più di quattro sintomi e all’interno dei tanti sintomi si possono cogliere dei raggruppamenti più comuni di altri.
Vi è chi ha attacchi caratterizzati da sintomi cardiovascolari (tachicardia, dolore al petto) e si precipita al Pronto Soccorso pensando ad un infarto. Vi sono persone con sintomi pseudo-neurologici: sensazioni di incertezza sulle gambe, senso di vertigine o di svenimento, tremori, annebbiamento della vista, confusione mentale, sensazioni di formicolio o di torpore alla lingua o a qualche arto. Questi pensano all’insorgere di una paralisi, possono spaventarsi e correre in Ospedale temendo un’emorragia, un ictus o altro insulto cerebrale.
Altre persone hanno principalmente sintomi respiratori: sensazione di asfissia, dispnea. A loro può bastare spalancare le finestre, correre all’aperto, respirare aria fresca e difficilmente correranno al Pronto Soccorso. Facilmente si metteranno in testa di dover evitare gallerie, cunicoli, locali fumosi, luoghi chiusi e affollati. Altri possono avere attacchi caratterizzati da sintomi gastrointestinali: nausea, disturbi addominali, accanto forse a palpitazioni, sudorazione, vampate di calore. Altri sperimenteranno sensazioni di irrealtà, si sentiranno stranamente distaccati dal mondo circostante o da se stessi, penseranno di essere sul punto di impazzire, si giudicheranno fragili mentalmente e bisognosi di attenzioni e cure.
Dunque possiamo incontrare sintomi molto diversi tra loro, ma tutti ‘interpretati’ come forieri di pericoli gravissimi e imminenti, vissuti con la massima apprensione: ‘mi sta succedendo qualcosa di molto grave, sto andando in pezzi, sono in grave pericolo (da un qualche punto di vista), potrei morire’.
Non dobbiamo credere che le sensazioni fisiche dell’attacco siano, per loro intrinseca natura, necessariamente dolorose e terrorizzanti.
Le persone non sono tutte uguali, vi è chi non salirebbe su un ottovolante neppure sotto la minaccia di una pistola, ma vi è chi fa lunghe code e paga denaro per salirvi. Tra individuo e individuo vi sono forti differenze sia fisiologiche sia psicologiche.
Poeti e romanzieri hanno descritto con palpitazioni, vampate, vertigini e svenimenti i trasporti amorosi degli innamorati; il cuore che sobbalza in petto è ‘interpretato’ dall’innamorato come segno d’amore, e non di prossimo infarto miocardico. Medesimo discorso può essere fatto per le vampate dell’ira, dell’odio, della gelosia, dell’invidia, ecc.: materia di drammi, poemi e romanzi, non di trattati di medicina. Senza bisogno di ricorrere al genio di poeti e scrittori, si pensi ai giochi dei bambini: col girotondo, con le capriole, con l’altalena si divertono provocando in se stessi sensazioni di stordimento e di vertigine.
Si pensi ad altre più energiche sensazioni che vengono attivamente cercate in un luna-park, per esempio con l’ottovolante o con gli specchi deformanti. Si pensi agli sbalzi di temperatura, di frequenza e pressione cardiaca che si sperimentano in una sauna. Si pensi all’incertezza posturale e alla vista annebbiata che induce l’alcol. Si pensi alle innumerevoli e intense sensazioni fisiche che accompagnano e seguono l’esercizio fisico.
Quando il panico divenne di moda, negli anni ottanta, alcuni studiosi parlarono di ‘attacchi non paurosi’ (non-fearful panic attack)’ per descrivere episodi che avrebbero avuto tutti i criteri per essere classificati come attacchi di panico, se non fosse che gli interessati non si erano spaventati affatto. Questi episodi emergevano nel corso di anamnesi cardiologiche o neurologiche effettuate per tutt’altri motivi, erano episodi cui gli interessati non avevano dato il minimo peso.
In conclusione, le persone si spaventano per gli attacchi non in virtù delle sensazioni che provano durante un attacco, ma perché esse sono (o sembrano) fuori contesto e perché l’interpretazione che viene data è di segnali di pericolo imminente e grave. Un attacco di panico non fa un disturbo mentale e teniamo bene a mente che una cosa è un attacco di panico, mentre altra cosa è un disturbo di panico.
Panico è uno strano nome. Il termine fa il suo ingresso ufficiale nella psicopatologia scientifica nel 1980 con il DSM-III. Da allora ha goduto di vasta (ma non giustificata!) popolarità anche tra l’uomo della strada e di favore da parte di quanti avevano piacere di medicalizzare esperienze che nell’ottocento erano chiamate ‘angoscia’.
Nell’uso giornalistico dei tempi andati si potevano trovare titoli del tipo seguente: “Un falso allarme, ma l’ordigno fu scambiato per una bomba e nello stadio si scatenò il panico; decine di persone ferite e calpestate nel tentativo di fuggire”. Dunque una reazione di paura incontrollata che, proprio perché incontrollata, produce una inutile quantità di danni. Il termine ‘panico’ trasformava in sostantivo un aggettivo del parlare erudito: legato al dio Pan. Ancora una volta, nel finire del secolo scorso, la psicopatologia rinnovava l’antica venerazione per la mitologia greca classica.
Chi era il dio Pan? Un deuccio di serie B. Non aveva casa sull’Olimpo e non frequentava gli dei altolocati. Incerto il padre, infelice l’aspetto: corpo ferino, volto barbuto e corna, zoccoli a zampe caprine, attributi sessuali spropositati e impudicamente esibiti. Pare che a lui si ispirasse l’iconografia medievale quando volle raffigurare il demonio.
Il dio Pan viveva in Arcadia e altre regioni agresti della Grecia classica, si aggirava per selve e boschi, suonando e cantando, in compagnia di una masnada di sfaticati perditempo: satiri, fauni, a volte quell’ubriacone di Dioniso. Non facevano altro che correre dietro alle ninfe e dedicarsi ai piaceri del cibo, del vino e dei sensi. Ma le ninfe non apprezzavano le profferte amorose di Pan, anzi fuggivano rapide come il vento. A Pan non restava che consolarsi con qualche pastorello o con meno ritrose capre e pecore (del resto, era proprio Pan il nume protettore delle greggi!).
C’è una sola cosa che ha attinenza con la nostra storia. Pan adorava il riposino post-prandiale nelle afose estati arcadiche. Guai a disturbarlo! Se qualche sprovveduto viandante giungeva nelle vicinanze e disturbava la pennichella, Pan si adirava oltremodo ed emetteva urla terrificanti che inducevano terrore e facevano scappare di gran corsa lo sciagurato disturbatore. Ma il più delle volte non c’era bisogno di urla: i disturbatori umani percepivano a distanza la presenza del dio, erano investiti da acuto terrore (appunto, ‘terror panico’) e se la davano a gambe. Così, nel parlare colto, timore e terrore panico è stato detto quell’inspiegabile senso di sgomento che un viandante poteva provare nel fitto di un bosco tetro e sconosciuto.