In occasione della pubblicazione del volume Fuori da me: Superare il disturbo di depersonalizzazione, (Edizioni Erickson) ho avuto l’occasione di intervistare la professoressa Fugen Neziroglu, autrice di questo interessante libro di auto-aiuto che funge anche da semplice ma completa guida per i terapeuti che si trovino ad avere a che fare con pazienti che soffrono di depersonalizzazione.
La professoressa Fugen Neziroglu è professoressa al Dipartimento di Psicologia della Hofstra University e alla Scuola di Medicina della Hofstra. È direttrice del Bio Behavioral Institute di Great Neck, New York, un centro clinico e di ricerca specializzato nel trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo e disturbi correlati, come disturbi d’ansia e depressione. È una psicoterapeuta cognitiva e comportamentale certificata, membro di molte associazioni nazionali e internazionali, fa parte del comitato scientifico dell’International Obsessive Compulsive Foundation (IOCDF) ed è presidente della OCD NY (Obsessive Compulsive Disorder New York) — un’affiliazione della IOCDF.
Fuori da me: Superare il disturbo di depersonalizzazione è uno dei 14 testi che ha scritto, oltre al volume Lo spettro dei disturbi ossessivo-compulsivi: Patogenesi, diagnosi e terapia (CSE, 2001), di cui è coautrice insieme a Jose A. Yaryura-Tobias.
Francesco Sanavio: Buonasera prof.ssa Neziroglu, è un onore e un piacere avere l’opportunità di intervistarla in occasione dell’edizione italiana del suo libro Overcoming depersonalization disorder. Questo testo è stato scritto in tempi in cui la nosografia psichiatrica faceva riferimento al DSM-IV-TR. Adesso che è stato introdotto il DSM-5, cosa pensa della nuova classificazione nosografica dei disturbi dissociativi?
Fugen Neziroglu: Ritengo che il DSM-5 descriva la depersonalizzazione allo stesso modo del DSM-IV, ma abbia aggiunto una descrizione meticolosa della derealizzazione. La descrizione del disturbo non è cambiata significativamente nel tempo, probabilmente perché ancora poco studiata e poco diagnosticata.
F.S.: Molti professionisti della salute mentale non dedicano la giusta attenzione a queste condizioni cliniche, ritenute troppo rare da incontrare o ritenendole solamente secondarie ad altri disturbi. Quali sono i principali errori che commettono di solito questi professionisti quando si trovano dinanzi a un paziente che soffre di depersonalizzazione?
F.N.: Ritengo che la depersonalizzazione/derealizzazione spesso non venga diagnosticata. Difficilmente vedo un paziente che arriva già con la diagnosi, e quando succede si tratta di solito di una diagnosi che si è fatto da solo. Molti di questi pazienti hanno ricevuto una diagnosi di depressione. Nonostante ansia e depressione siano sintomi comuni del DPD, i due disturbi sono molto diversi tra loro. I pazienti depressi possono isolarsi e smettere di interagire con gli altri, ma non sono emotivamente «distaccati». Non sentono una disconnessione tra il loro corpo e la loro mente. I pazienti depersonalizzati solitamente si chiedono se ci sia qualcosa di sbagliato nel loro cervello, come se si sentissero neurologicamente danneggiati. Sanno quello che dovrebbero provare, ma non sentono più nulla. Raccontano di sentirsi insensibili e di vivere in un mondo irreale. Inoltre, anche le loro percezioni risultano alterate: gli oggetti sembrano molto distanti, appaiono strani, i rumori possono essere più forti di quanto siano in realtà. Questa sintomatologia non viene vissuta, invece, dai pazienti depressi.
F.S.: Il disturbo di depersonalizzazione è, in effetti, una condizione non comune. Come arrivano alla sua clinica i pazienti che soffrono di depersonalizzazione?
F.N.: La maggior parte dei pazienti arriva per motivi legati alla depressione, e il mio lavoro è appunto quello di differenziare subito i due disturbi. Pochi pazienti arrivano con una diagnosi che si sono fatti da soli. Hanno letto qualcosa online oppure, su qualche chat room, qualcuno ha menzionato dei sintomi simili e loro si sono chiesti se potessero soffrire di un disturbo di depersonalizzazione. Le meraviglie di Internet…
F.S.: Lei ha lavorato sia a New York sia a Buenos Aires. È ben noto da tempo che la cultura possa mediare l’espressione dei disturbi psicologici; quindi, riguardo ai sintomi di depersonalizzazione, lei ha osservato delle differenze tra la popolazione statunitense e la popolazione argentina? Pensa che gli italiani si debbano aspettare di vedere delle differenze nella maniera in cui gli stati dissociativi siano agiti ed espressi nella nostra cultura?
F.N.: Credo che, come in molti altri disturbi, anche qui la cultura giochi un ruolo importante. Penso che, forse, in Italia possiate avere a che fare con un maggior numero di pazienti che arriva con lamentele fisiche insieme ad ansia e depressione. Penso che le culture latine siano in generale più emotive e a volte manifestino le emozioni come lamentele fisiche. Ci possono essere maggiori dubbi riguardo al fatto che ci sia qualcosa di sbagliato sul piano fisico; si possono colpevolizzare per non sentire quello che pensano di dover provare per i loro familiari e i loro amici. Sai… gli argentini in fondo sono italiani che vivono in Sud America. La loro cultura è estremamente influenzata da quella italiana.
F.S.: C’è qualcos’altro che vorrebbe condividere con i suoi lettori italiani?
F.N.: Vorrei dire che sono molto felice che questo libro sia stato tradotto nella vostra lingua. Più persone imparano qualcosa sul disturbo di depersonalizzazione, meglio è. Sono molto grata a Francesco Sanavio per aver curato il lavoro di traduzione. Ringrazio lui e tutti coloro che leggeranno questo testo e impareranno qualcosa sul DPD.